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Bundesgericht 
Tribunal fédéral 
Tribunale federale 
Tribunal federal 
 
                 
 
 
6B_805/2017  
 
 
Sentenza del 6 dicembre 2018  
 
Corte di diritto penale  
 
Composizione 
Giudici federali Denys, Presidente, 
Eusebio, Jacquemoud-Rossari, Oberholzer, Rüedi, 
Cancelliera Ortolano Ribordy. 
 
Partecipanti al procedimento 
A.________, 
patrocinato dall'avv. Andrea Rotanzi e 
dall'avv. Deborah Gobbi, 
ricorrente, 
 
contro 
 
Ministero pubblico del Cantone Ticino, 
opponente. 
 
Oggetto 
Discriminazione razziale (art. 261bis cpv. 4 seconda parte CP), arbitrio, libertà di espressione, 
 
ricorso in materia penale contro la sentenza emanata 
il 2 giugno 2017 dalla Corte di appello e di revisione penale del Cantone Ticino (incarto n. 17.2016.160+167). 
 
 
Fatti:  
 
A.   
Il 30 gennaio 2013 A.________ è stato denunciato penalmente per discriminazione razziale. La denuncia trae origine da due articoli di A.________, dal titolo e contenuto pressoché identici, il primo pubblicato sul giornale B.________ e il secondo apparso sul portale C.________ nel novembre 2012. I testi intitolati "  Srebrenica, come sono andate [veramente] le cose " contenevano i seguenti passaggi:  
 
«  la versione ufficiale di Srebrenica è una menzogna propagandistica che non diventa più vera se la si ripete un'infinità di volte senza poterla provare»;  
 
«  le cose non sono andate proprio come qualcuno ha tentato e tenta ancora di raccontarcele »;  
 
«un massacro c'è veramente stato, con una piccola differenza però rispetto alla tesi ufficiale: vittime del massacro sono stati i serbi»;  
 
«l'altro massacro, quello dei mussulmani, presenta molti lati oscuri (sulla cifra totale si sono scoperti falsi clamorosi e gente che con Srebrenica non c'entrava proprio nulla) », nonché 
 
«  Srebrenica è anche un'orribile metafora sanguinaria e truculenta in cui non solo echeggiano razzismo, fascismo, genocidio, pulizia etnica e stupro di massa; in breve tutte etichette non sempre veritiere che negli ultimi due decenni si sono rivelate di provata efficacia per ingannare l'opinione pubblica ».  
 
B.   
Con sentenza del 31 maggio 2016, il Giudice della Pretura penale ha riconosciuto A.________ autore colpevole di ripetuta discriminazione razziale e lo ha condannato alla pena pecuniaria di 45 aliquote giornaliere di fr. 130.--, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di 2 anni, nonché alla multa di fr. 1'100.--, fissando a 11 giorni la pena detentiva sostitutiva in caso di mancato pagamento. 
 
C.   
Adita dal condannato, con sentenza del 2 giugno 2017, la Corte di appello e di revisione penale del Cantone Ticino (CARP) ne ha accolto parzialmente l'appello. Pur confermando la condanna per ripetuta discriminazione razziale giusta l'art. 261 bis cpv. 4 seconda parte CP, ha ridotto l'importo delle aliquote giornaliere a fr. 110.-- e la multa a fr. 900.--, riducendo pure a 9 giorni la pena detentiva sostitutiva in caso di mancato pagamento.  
 
D.   
Avverso questo giudizio A.________ si aggrava al Tribunale federale con un ricorso in materia penale, postulando il suo proscioglimento nonché l'esenzione, a titolo di indennizzo ex art. 429 CPP, dall'obbligo di restituire allo Stato del Cantone Ticino gli importi corrisposti in sede cantonale al suo difensore d'ufficio. 
 
Invitati a esprimersi sul gravame, il Ministero pubblico comunica di non avere osservazioni da presentare e la CARP rinuncia a prendere posizione, rimettendosi al prudente giudizio di questo Tribunale. 
 
 
Diritto:  
 
1.   
Presentato dall'imputato (art. 81 cpv. 1 LTF) e diretto contro una decisione finale (art. 90 LTF) resa in materia penale (art. 78 cpv. 1 LTF) da un'autorità cantonale di ultima istanza (art. 80 LTF), il ricorso è tempestivo (art. 100 cpv. 1 LTF) e inoltrato nelle forme richieste (art. 42 cpv. 1 LTF). Nulla osta al suo esame di merito. 
 
2.   
Giusta l'art. 261 bis cpv. 4 CP, si rende colpevole di discriminazione razziale chiunque, pubblicamente, mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto o in modo comunque lesivo della dignità umana, discredita o discrimina una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia o religione o, per le medesime ragioni, disconosce, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l'umanità. Di rilievo per il caso in esame è la seconda parte della disposizione, sulla base della quale il ricorrente è stato ritenuto colpevole.  
 
2.1. L'art. 261 bis cpv. 4 seconda parte CP è un reato di pericolo astratto contro la tranquillità pubblica (DTF 129 IV 95 consid. 3.3.1 pag. 101 e consid. 3.5 pag. 105). La disposizione mira a lottare contro le lesioni discriminatorie (DTF 126 IV 20 consid. 1c pag. 24).  
 
2.2. La norma reprime tre diversi comportamenti: quello di disconoscere, quello di minimizzare grossolanamente e quello di cercare di giustificare il genocidio o un altro crimine contro l'umanità. Disconoscere (  leugnen; nier) consiste nel negare o nel mettere in dubbio la realtà o la veracità di un evento, sia in modo esplicito sia mediante una formulazione interrogativa (v. DTF 126 IV 20 consid. 1e pag. 27). Disconosce anche colui che ricorre a termini quali  mito, leggenda, favola se riferiti a un genocidio o a un altro crimine contro l'umanità (v. sentenza 6S.614/2001 del 18 marzo 2002 consid. 3b/bb). Chi minimizza grossolanamente (  gröblich verharmlosen; minimiser grossièrement) non nega la realtà o la veracità di un evento, ma ne sminuisce la portata, l'ampiezza, ne ridimensiona l'importanza. Infine cerca di giustificare (  zu rechtfertigen suchen; chercher à justifier) chi legittima l'evento, senza contestarne l'esistenza né le proporzioni, segnatamente attribuendo alle vittime una sorta di corresponsabilità o ritenendolo accettabile o necessario (MARCEL ALEXANDER NIGGLI, Rassendiskriminierung, Ein Kommentar zu Art. 261 bis StGB und Art. 171c MStG, 2 aed. 2007, n. 1452 segg.; DORRIT SCHLEIMINGER METTLER, in Basler Kommentar, Strafrecht, vol. II, 3 aed. 2013, n. 65 segg. ad art. 261 bis CP; MICHEL DUPUIS ET AL., Code pénal, petit commentaire, 2 aed. 2017, n. 65 segg. ad art. 261 bis CP; MIRIAM MAZOU, in Commentaire romand, Code pénal, vol. II, 2017, n. 58 segg. ad art. 261 bis CP; ALEXANDRE GUYAZ, L'incrimination de la discrimination raciale, 1996, pag. 305 seg.; ROBERT ROM, Die Behandlung der Rassendiskriminierung im schweizerischen Strafrecht, 1995, pag. 137).  
 
Il comportamento deve riferirsi al genocidio o ad altri crimini contro l'umanità. Per definire queste nozioni occorre richiamarsi in primo luogo agli art. 264 seg. CP e 6 seg. dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale del 17 luglio 1998 (Statuto di Roma; RS 0.312.1), nonché agli art. I e II della Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (RS 0.311.11; NIGGLI, op. cit., n. 1354 e 1395; SCHLEIMINGER METTLER, op. cit., n. 63 ad art. 261 bis CP; DUPUIS ET AL., op. cit., n. 60 e 64 ad art. 261 bis CP; MAZOU, op. cit., n. 51 e 57 ad art. 261 bis CP; TRECHSEL/VEST, Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, 3 aed. 2018, n. 36 ad art. 261 bis CP). Chiamato a giudicare un caso di discriminazione razziale giusta l'art. 261 bis cpv. 4 seconda parte CP, il giudice deve esaminare se esiste un consenso generale, che non implica unanimità, sul carattere genocida rispettivamente di crimini contro l'umanità degli eventi disconosciuti, minimizzati grossolanamente o che si è cercato di giustificare (v. sentenza 6B_398/2007 del 12 dicembre 2007 consid. 3.4.3 e 4.4; DUPUIS ET AL., op. cit., n. 61 e 64 ad art. 261 bis CP).  
 
L'autore deve agire pubblicamente, ovvero all'infuori dell'ambito privato (DTF 130 IV 111 consid. 5.2.2), mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto (al riguardo v. NIGGLI, op. cit., n. 1497 segg.; DTF 127 IV 203 consid. 3 pag. 205). 
 
2.3. Sotto il profilo soggettivo, il reato è intenzionale e il dolo eventuale è sufficiente (sentenza 6B_734/2016 del 18 luglio 2017 consid. 6.1 non pubblicato in DTF 143 IV 308). Dopo aver precisato in un primo tempo che l'autore deve inoltre agire mosso da motivi legati alla discriminazione razziale (DTF 123 IV 202 consid. 4c pag. 210; 124 IV 121 consid. 2b pag. 125), nella giurisprudenza più recente il Tribunale federale ha lasciato irrisolta la questione del movente, oggetto di controversie dottrinali (DTF 126 IV 20 consid. 1d pag. 26; 127 IV 203 consid. 3 pag. 206), che merita ora di essere affrontata e decisa.  
 
2.3.1. L'art. 261 bis cpv. 4 seconda parte CP esordisce con l'espressione "per le medesime ragioni" ("aus einem dieser Gründe"; "pour la même raison"), facendo riferimento alla locuzione "per la loro razza, etnia o religione" ("wegen ihrer Rasse, Ethnie oder Religion"; "en raison de leur race, de leur appartenance ethnique ou de leur religion") utilizzata nella prima parte della norma. Il disconoscimento, la minimizzazione grossolana rispettivamente il tentativo di giustificare un genocidio o un altro crimine contro l'umanità sarebbe pertanto punibile unicamente se dettato da motivi discriminatori (sentenza 6S.420/1999 del 21 giugno 2000 consid. 3b/bb non pubblicato in DTF 126 IV 176).  
 
2.3.2. Giusta l'art. 261 bis cpv. 4 del disegno di modificazione del CP, si sarebbe reso colpevole di discriminazione razziale chiunque avrebbe offeso pubblicamente, mediante parole, immagini, gesti, attività o altrimenti la dignità umana di una persona o di un gruppo di persone per la loro razza o per la loro appartenenza ad un determinato gruppo etnico o religioso, o che, per le medesime ragioni, avrebbe disonorato la memoria di un defunto. La seconda parte della norma era concepita per agire contro la cosiddetta "menzogna di Auschwitz" e quindi contro le falsificazioni della storia da parte dei revisionisti, dietro le quali si cela sovente una propaganda razzista (Messaggio del 2 marzo 1992 concernente l'adesione della Svizzera alla Convenzione internazionale del 1965 sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale e la conseguente revisione del CP; FF 1992 III 260 n. 636.2, 278).  
 
Sulla scorta delle osservazioni formulate da KARL-LUDWIG KUNZ (Neuer Straftatbestand gegen Rassendiskriminierung - Bemerkungen zur bundesrätlichen Botschaft, RPS 110/1992 pag. 154 segg.), la Commissione degli affari giuridici del Consiglio nazionale ha rielaborato il testo dell'art. 261 bis cpv. 4 seconda parte CP, sostituendo "disonora la memoria di un defunto" con "disconosce, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l'umanità". In occasione del dibattito parlamentare alle Camere, né lo scopo né gli elementi costitutivi di tale norma sono stati oggetto di particolari discussioni, tranne che per aspetti linguistici: con riferimento alla versione francese è stato proposto di indicare "  tout génocide " invece di "  le génocide ", per poi optare per "  un génocide " nella versione finale adottata dal Parlamento (v. al riguardo sentenza 6B_398/2007 del 12 dicembre 2007 consid. 3.2), modifica che tuttavia non trova riscontro nel testo italiano della disposizione ove ancora si legge "il genocidio".  
 
La genesi della disposizione non fornisce quindi alcuna indicazione utile sulla funzione da attribuire alla locuzione "per le medesime ragioni". 
 
2.3.3. Per una parte della dottrina il richiamo a razza, etnia o religione operato dalla locuzione "per le medesime ragioni" è manifestamente frutto di una carente accuratezza del legislatore nella formulazione della norma (HANS VEST, Zur Leugnung des Völkermords an den Armeniern 1915, AJP/PJA 2000 pag. 70; N IGGLI, op. cit., n. 1690). Se all'origine, nel disegno del Consiglio federale (v. FF 1992 III 278), l'espressione "per le medesime ragioni" si riferiva alle vittime di crimini motivati dalla loro razza, etnia o religione, tale accezione non ha trovato tuttavia chiara espressione nel testo finale della disposizione (DONATSCH/THOMMEN/WOHLERS, Strafrecht IV, Delikte gegen die Allgemeinheit, 5 aed. 2017, pag. 240). Ciò malgrado, REHBERG ritiene che il movente discriminatorio debba essere posto in relazione al genocidio rispettivamente ai crimini contro l'umanità e non al comportamento sanzionato dall'art. 261 bis cpv. 4 seconda parte CP (JÖRG REHBERG, Strafrecht IV, Delikte gegen die Allgemeinheit, 2 aed. 1996, pag. 187 seg.). Benché unanime nel considerare il negazionismo un comportamento riprovevole e meritevole di essere sanzionato penalmente indipendentemente dalle ragioni che ne sono alla base, la dottrina maggioritaria ritiene che "per le medesime ragioni" si riferisca per lo più al movente dell'autore, che deve dunque agire mosso da motivi razzisti o discriminatori (HANS VEST, in Delikte gegen den öffentlichen Frieden [Art. 258-263 StGB], 2007, n. 102 seg. ad art. 261 bis CP; DONATSCH/ THOMMEN/WOHLERS, op. cit., pag. 240; STRATENWERTH/BOMMER, Schweizerisches Strafrecht, besonderer Teil, vol. II, 7 aed. 2013, pag. 217; NIGGLI, op. cit., n. 1690, 1695 segg.; TRECHSEL/VEST, op. cit., n. 38 ad art. 261 bis CP).  
 
2.3.4. Fondandosi sulla struttura della frase risulta assai arduo collegare il movente discriminatorio alla commissione del genocidio o dei crimini contro l'umanità. Lo stesso REHBERG d'altronde riconosce che tale collegamento non è senz'altro evidente (REHBERG, op. cit., pag. 187). Come sostenuto dalla dottrina maggioritaria, si deve ammettere che il movente si riferisce piuttosto all'autore del reato di cui all'art. 261 bis cpv. 4 seconda parte CP. Tenuto conto della recente definizione di genocidio e dei crimini contro l'umanità contenuta nel CP, le ragioni che inducono l'autore a disconoscerli, minimizzarli grossolanamente o a cercare di giustificarli assumono una rilevanza particolare per poter qualificare il suo comportamento come una discriminazione razziale. Eccezion fatta della persecuzione e dell'apartheid (art. 264a cpv. 1 lett. i CP), i crimini contro l'umanità sono infatti diretti contro popolazioni civili, senza necessariamente distinzione di razza, etnia o religione (art. 264a cpv. 1 CP, v. pure art. 7 dello Statuto di Roma). Quanto al genocidio (art. 264 CP), alla persecuzione e all'apartheid (art. 264a cpv. 1 lett. i CP), trattasi di crimini contro gruppi non solo nazionali, razziali, etnici o religiosi, ma anche sociali o politici. La disposizione ha d'altronde lo scopo di contrastare le falsificazioni della storia che spesso sottendono una tendenza alla propaganda razzista (v. supra consid. 2.3.2). In quest'ottica, perché vi sia discriminazione razziale, non appare quindi sufficiente contestare l'esistenza o le dimensioni di un genocidio o di altri crimini contro l'umanità, rispettivamente tentare di giustificarli, occorre inoltre che tale comportamento sia dettato da particolari moventi dell'autore, che detesta o disprezza le persone di una determinata razza, etnia o religione (v. anche BERNARD CORBOZ, Les infractions en droit suisse, vol. II, 3 aed. 2010, n. 37 ad art. 261 bis CP; DUPUIS ET AL., op. cit., n. 81 ad art. 261 bis CP; CHARLES PONCET, La répression du négationnisme sous l'angle de l'art. 10 CEDH, Medialex 2001 pag. 89 seg.). Il comportamento punibile deve dunque costituire una manifestazione caratteristica della discriminazione.  
 
3.   
Richiamandosi alla Risoluzione del Parlamento europeo del 15 gennaio 2009 su Srebrenica n. 2010/C 46 E/17 (GU C 46E del 24 febbraio 2010 pag. 111), alle sentenze del Tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite per l'ex-Jugoslavia in re Krstic rispettivamente Karadzic, in quest'ultimo caso non ancora definitiva, nonché alla sentenza del 26 febbraio 2007 della Corte internazionale di giustizia relativa all'applicazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio in re Bosnia-Erzegovina contro Serbia e Montenegro (CIJ Raccolta 2007 vol. I pag. 43 segg.), la CARP ha ritenuto che quanto accaduto a Srebrenica nel luglio 1995 costituisce un genocidio. Analizzando i testi redatti dal ricorrente, essa ha poi rilevato che egli, non solo ha messo in dubbio la realtà storica dei fatti di Srebrenica, ma li ha stravolti invertendo il ruolo delle parti al massacro, da vittime a carnefici. Dagli articoli incriminati non si evince, sempre secondo la CARP, l'addotta volontà di esprimere solidarietà verso le vittime civili sia serbe sia bosniache mussulmane, emergendo piuttosto una posizione spudoratamente sbilanciata a favore delle prime. Se le seconde sono pure menzionate, è solo per metterne in dubbio l'esistenza. Il ricorrente ha dunque espresso pubblicamente un chiaro pensiero negazionista in merito al genocidio di Srebrenica. 
 
3.1. Precisando di non contestare la qualifica di genocidio riconosciuto internazionalmente in relazione ai fatti di Srebrenica, il ricorrente lamenta arbitrio nella valutazione dei suoi scritti. Il testo degli articoli redatti sarebbe chiaro e non permetterebbe di ritenere uno stravolgimento dei ruoli di vittime e carnefici, emergerebbe invece la volontà di evidenziare l'esistenza di un secondo grave fatto di sangue avvenuto a Srebrenica, ovvero «  l'altro massacro », poco noto, ai danni di civili serbi, senza sminuire quanto accaduto. Il termine «  menzogna » non sarebbe stato usato con riferimento al genocidio in quanto tale, bensì alle vittime dei massacri che non sarebbero unicamente i civili bosniaci ma anche i civili serbi: la versione ufficiale non corrisponderebbe appieno alla realtà non perché il genocidio non sarebbe stato perpetrato, ma perché avrebbe cagionato più morti di quelli dichiarati ufficialmente. L'uso di termini forti e del sarcasmo sarebbe usuale nel mondo politico, a cui l'insorgente appartiene, trattandosi di metodi volti a suscitare l'interesse e l'attenzione del pubblico. Le conclusioni tratte dalla CARP sul senso dei suoi articoli sarebbero pertanto insostenibili.  
 
3.2. Stabilire il contenuto di una dichiarazione costituisce una questione di fatto, mentre sapere quale senso dev'esserle conferito è una questione di diritto che il Tribunale federale esamina con pieno potere d'esame. Determinante per la valutazione penale di una dichiarazione è il senso che un lettore medio non prevenuto le attribuisce, tenuto conto di tutte le circostanze concrete del caso (DTF 143 IV 193 consid. 1 pag. 198). Occorre quindi che un terzo discerna nella dichiarazione un disconoscimento, una minimizzazione grossolana o un tentativo di giustificare un genocidio o un altro crimine contro l'umanità e che l'autore abbia preso in considerazione una simile interpretazione (v. DTF 140 IV 67 consid. 2.1.2).  
 
3.3. Il senso attribuito al testo del ricorrente da parte della CARP è condivisibile. Egli, riferendosi a una pubblicazione del 2010 di Alexander Dorin e Zoran Jovanovic, non si limita, come pretende, a evidenziare l'esistenza anche di vittime civili serbe degli eventi di Srebrenica, ma mette in dubbio la realtà storica di tali eventi. Un lettore medio non prevenuto non può infatti comprendere altrimenti frasi quali «  le cose non sono andate proprio come qualcuno ha tentato e tenta ancora di raccontarcele » o «  la versione ufficiale di Srebrenica è una menzogna propagandistica che non diventa più vera se la si ripete un'infinità di volte senza poterla provare ». Il termine "genocidio" è peraltro inserito nella lista di « etichette non sempre veritiere che negli ultimi due decenni si sono rivelate di provata efficacia per ingannare l'opinione pubblica ». Del resto l'espressione «  menzogna propagandistica » è riferita alla «  versione ufficiale di Srebrenica », che altro non è che quanto accertato nelle competenti sedi internazionali, in particolare dalla Corte internazionale di giustizia, ovvero la perpetrazione di un atto di genocidio ai danni dei Mussulmani di Bosnia (v. al riguardo CIJ Raccolta 2007 vol. I pag. 166). Scrivendo «  un massacro c'è veramente stato, con una piccola differenza però rispetto alla tesi ufficiale: vittime del massacro sono stati i serbi », egli lascia chiaramente intendere che anzitutto questi ultimi sarebbero vittime. Quelle mussulmane, se non negate, sono invece prospettate come incerte o comunque dubbiose nel contesto dell'«  altro massacro » che «  presenta molti lati oscuri (sulla cifra totale si sono scoperti falsi clamorosi e gente che con Srebrenica non c'entrava assolutamente nulla) ». Da queste parole un lettore medio non prevenuto desume un messaggio negazionista in punto al genocidio dei Mussulmani di Bosnia e non la segnalazione di un ulteriore dramma aggiuntivo in cui morirono numerosi civili serbi. È questo il senso che trasmette il testo redatto dall'insorgente. L'impiegato sarcasmo («  una piccola differenza ») e l'utilizzo di "termini forti" («  menzogna ») amplificano tale senso. Non traspare il preteso intento di attirare l'attenzione su ulteriori vittime di quegli eventi poco o non note all'opinione pubblica. Il ricorrente non si è limitato a porre l'accento su un altro aspetto del genocidio di Srebrenica, come sostiene, ma ha dubitato delle vittime mussulmane bosniache, lasciando praticamente intendere essere una montatura.  
 
3.4. Avendo agito pubblicamente mediante scritti, anche gli ulteriori elementi oggettivi dell'infrazione sono dati.  
 
4.   
Il ricorrente contesta l'adempimento dell'aspetto soggettivo del reato, sostenendo di non aver agito per motivi di odio o di discriminazione razziale, peraltro nemmeno percepibili da un lettore neutrale. Animato da sempre da un "sentimento di giustizia", egli avrebbe voluto unicamente attirare l'attenzione dell'opinione pubblica sull'esistenza di vittime serbe, oltre a quelle bosniache. La CARP avrebbe confuso l'intenzionalità con il movente discriminatorio: non avrebbe evidenziato alcun elemento fattuale relativo al movente, salvo l'utilizzo di termini perentori. Dagli stessi non sarebbe tuttavia possibile, senza incorrere nell'arbitrio, dedurre un simile movente, precisato inoltre che il solo fatto di pubblicare opinioni che divergono dalla versione ufficiale di un genocidio non tradurrebbe eo ipso un movente di discriminazione razziale.  
 
4.1. Rilevato che l'insorgente conosceva l'art. 261 bis CP, la CARP ha accertato che egli sapeva di esporsi a sanzioni penali procedendo alla pubblicazione degli articoli in questione. La condivisione pubblica delle posizioni negazioniste del libro all'origine di tali articoli e il loro tenore perentorio e diretto contro la versione ufficiale del genocidio di Srebrenica sarebbero indicativi di un intento discriminatorio nei confronti delle vittime mussulmane dell'eccidio di Srebrenica. La Corte cantonale ha quindi ritenuto realizzato il reato anche sotto il profilo soggettivo.  
 
4.2. In casu contestata è unicamente l'esistenza di un movente discriminatorio.  
 
Il movente è la causa psicologica di una determinata manifestazione della volontà. Sovente rappresenta l'espressione di sentimenti coscienti o meno, di impulsi o di ragionamenti che influiscono in modo mediato o immediato sul reato. La determinazione del movente attiene all'accertamento dei fatti. In quanto fattore interiore all'autore afferente la sua coscienza, il giudice può dedurre il movente da tutte le prove pertinenti (DTF 101 IV 387 consid. 2a) nonché da indizi esteriori (v. GUYAZ, op. cit., pag. 133 e 137; VEST, op. cit., pag. 71; VEST/SIMON, AJP/PJA 2016 pag. 544). 
 
4.3. La CARP ha dedotto il movente discriminatorio unicamente dalla contestazione della versione ufficiale di Srebrenica e dai toni perentori dell'articolo. L'accertamento cantonale al riguardo risulta essere arbitrario. In pratica, dall'adempimento dell'elemento oggettivo del reato del disconoscimento del genocidio (nella fattispecie la contestazione della versione ufficiale di Srebrenica) ha ricavato l'elemento soggettivo del movente discriminatorio, come se i due elementi coincidessero perfettamente. Se si può ammettere che il movente discriminatorio è praticamente intrinseco a qualsiasi tentativo di giustificare un genocidio o un altro crimine contro l'umanità fondati sull'appartenenza razziale, etnica o religiosa delle vittime, dal momento che comporta necessariamente una sorta di approvazione di tali atrocità rispettivamente delle ideologie che ne sono alla base (NIGGLI, op. cit., n. 1696; HÖHENER/SAGER, forumpoenale 5/2010 pag. 272 i.f. e seg.), in caso di disconoscimento o di minimizzazione tale automatismo non regge e occorre quindi soppesare le circostanze del caso, anche se simili comportamenti lasciano invero poco spazio a moventi "rispettabili" (TRECHSEL/VEST, op. cit., n. 38 ad art. 261 bis CP; PONCET, op. cit., pag. 90; SCHLEIMINGER METTLER, op. cit., n. 69 ad art. 261 bis CP; NIGGLI, op. cit., n. 1696 seg.; VEST/SIMON, op. cit., pag. 544). È vero che la giurisprudenza ha implicitamente adottato tale automatismo o comunque dato per assodato il movente discriminatorio in relazione alla cosiddetta "menzogna di Auschwitz", essendo oggigiorno un veicolo di un antisemitismo estremo. La stessa si traduce spesso in un tentativo di riabilitazione del regime nazionalsocialista e in un'accusa più o meno velata di falsificazione della storia e di congiura di cui approfitterebbero le stesse vittime (v. sentenza 6S.420/1999 del 21 giugno 2000 consid. 3b/bb; v. pure STRATENWERTH/BOMMER, op. cit., pag. 217; JEAN-FRANÇOIS AUBERT, L'article sur la discrimination raciale et la Constitution Suisse, AJP/PJA 1994 pag. 1085 n. 36; VEST/SIMON, op. cit., pag. 544). Ciò non sembra tuttavia essere il caso in concreto o quanto meno non risulta dagli accertamenti della sentenza impugnata, privi di indizi al riguardo. Malgrado l'uso di toni perentori, dalla lettura degli scritti del ricorrente nel suo insieme, e non unicamente dalle singole frasi oggetto di imputazione, alla base del disconoscimento del genocidio di Srebrenica non appaiono immediatamente evincibili motivi discriminatori nei confronti dei Mussulmani di Bosnia. In assenza di sufficienti accertamenti al riguardo, non è possibile concludere alla sussistenza di un movente discriminatorio. Su questo punto il ricorso si rivela pertanto fondato.  
 
4.4. Visto quanto precede la sentenza impugnata dovrebbe essere annullata e la causa rinviata alla CARP affinché esamini nuovamente, dopo aver completato l'accertamento dei fatti, l'esistenza di un eventuale movente discriminatorio. Per ragioni di economia processuale si può tuttavia prescindere da un tale rinvio perché, anche qualora simile movente fosse stabilito, la condanna del ricorrente si rivelerebbe contraria alla libertà di opinione e di espressione.  
 
5.   
Richiamandosi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in re  Perinçek contro Svizzera, l'insorgente sostiene che il suo agire sarebbe tutelato dalla libertà d'opinione e d'espressione sancita rispettivamente dagli art. 16 Cost. e 10 CEDU. La CARP ha invece negato che il comportamento del ricorrente potesse essere giustificato dall'esercizio di tale libertà.  
 
5.1. La libertà d'opinione è garantita: ognuno ha il diritto di formarsi liberamente la propria opinione, di esprimerla e diffonderla senza impedimenti (art. 16 cpv. 1 e 2 Cost.). Può nondimeno subire delle restrizioni, purché fondate su una base legale, giustificate da un interesse pubblico o dalla protezione di diritti fondamentali altrui e proporzionate (art. 36 Cost.). A livello internazionale, la libertà di espressione è garantita dall'art. 10 CEDU e include segnatamente la libertà di opinione e la libertà di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera (art. 10 n. 1 CEDU). L'esercizio di queste libertà può essere sottoposto a restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica, in particolare per l'ordine pubblico o la protezione della reputazione o dei diritti altrui (art. 10 n. 2 CEDU). Nonostante la diversa formulazione, l'art. 10 CEDU non conferisce al cittadino diritti più vasti di quelli garantiti dalla Costituzione federale (v. DTF 117 Ia 472 consid. 3b pag. 477).  
 
5.2. La criminalizzazione del negazionismo costituisce oggigiorno uno dei limiti più discussi della libertà di espressione (LYSANDRE PAPADOPOULOS, Perinçek et Dieudonné à Strasbourg: un sens univoque pour la liberté d'expression appliquée au discours négationniste?, pag. 6, in Jusletter dell'8 agosto 2016). Nella sentenza  Perinçek contro Svizzera del 15 ottobre 2015 (Recueil CourEDH 2015-IV pag. 291), la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo (CorteEDU) si è pronunciata proprio su una condanna per titolo di discriminazione razziale giusta l'art. 261 bis cpv. 4 CP relativa alla negazione del genocidio armeno, considerandola lesiva dell'art. 10 CEDU in quanto non necessaria in una società democratica per la protezione della reputazione e dei diritti altrui, in altre parole in quanto sproporzionata. Benché il suo esame si sia limitato all'applicazione della citata norma penale nel caso concreto e in nessun modo alla sua compatibilità in generale con la libertà di espressione, la CorteEDU ha stabilito una serie di criteri di valutazione delle restrizioni poste a tale libertà che hanno un respiro più ampio del singolo caso e vocazione generale, qui brevemente riassunti.  
 
Dopo aver rilevato che la condanna penale di Perinçek costituiva un'ingerenza nell'esercizio della sua libertà di espressione (§ 117), fondata su una base legale accessibile (§ 130) e prevedibile (§ 140), avente lo scopo legittimo della difesa dei diritti altrui, segnatamente della dignità delle vittime e dei sopravvissuti del genocidio armeno nonché dei loro discendenti (§ 155-157), la CorteEDU ha esaminato se tale ingerenza fosse  necessaria in una società democratica, procedendo a una ponderazione tra la libertà di espressione di Perinçek da un lato e il diritto al rispetto della vita privata degli Armeni dall'altro. A tal fine essa ha analizzato la natura del discorso di Perinçek (§ 229-241), il contesto dell'ingerenza sotto il profilo geografico, storico e temporale (§ 242-250), l'entità della lesione ai diritti dei membri della comunità armena provocata dal discorso di Perinçek (§ 251-254) nonché, rilevata l'assenza di un consenso tra gli Stati contraenti in relazione alla criminalizzazione della negazione di qualsiasi genocidio (§ 255-257) come pure l'assenza di obblighi internazionali in tal senso (§ 258-268), la gravità dell'ingerenza (§ 272-273). Tenuto conto che il discorso di Perinçek concerneva un tema di interesse pubblico e non si traduceva in un appello all'odio o all'intolleranza, che il contesto in cui è stato pronunciato non era caratterizzato da forti tensioni o da particolari precedenti storici della Svizzera, che il discorso in questione non poteva essere considerato talmente lesivo della dignità della comunità armena da richiedere una risposta penale in Svizzera, che nessun obbligo internazionale obbliga la Svizzera a punire penalmente affermazioni negazioniste, che Perinçek sembrava essere stato punito per aver espresso un'opinione diversa da quella preponderante in Svizzera e infine tenuto conto che l'ingerenza ha preso la grave forma di una condanna penale, la CorteEDU ha concluso che non era necessario in una società democratica condannare penalmente Perinçek allo scopo di tutelare i diritti della comunità armena (§ 280).  
 
5.3. Prima di analizzare la fattispecie alla luce di quanto esposto, si giustifica riprodurre l'integralità dell'articolo redatto dal ricorrente:  
 
«Srebrenica, come sono andate le cose 
Ho preso a prestito come titolo di questo mio contributo il titolo del libro di Alexander Dorin e Zoran Jovanovic, uscito nel 2010 nella versione originale «Srebrenica, wie es wirklich war», tradotto in italiano da Antje Foresta e Corrado Bertani nel 2012, editore Zambon. Un libro che molti dovrebbero leggere, compresi certi ex magistrati, poiché le cose non sono andate proprio come qualcuno ha tentato e tenta ancora di raccontarcele. La disinformazione pilotata, specie su temi internazionali, la fa da padrone da sempre e quindi condivido pienamente ciò che è scritto e documentato in questo libro eccezionale. Ma a proposito di disinformazione pilotata; qualcuno si ricorda ancora «il massacro di civili albanesi» consumato dall'esercito jugoslavo (serbo-montenegrino) in Kosovo? 
Quanti fra di noi hanno saputo - a distanza di tempo - che i «civili» non erano tali ma combattenti dell'UCK caduti nel corso di uno scontro armato e che il capo degli osservatori internazionali altri non era che l'agente della CIA William Walker, il quale ordinò di spogliarli delle divise e di rivestirli con abiti civili creando così l'occasione lungamente attesa per dichiarare guerra alla Jugoslavia? 
Tutto ciò è semplicemente stomachevole per non dire peggio. Srebrenica è una piccola città situata nella ex Repubblica jugoslava e dello Stato attuale Bosnia-Erzegovina artificialmente creato dalla NATO (ma che strano!). Era un'enclave in territorio serbo, abitata fino a metà degli anni '90 in maggioranza da mussulmani. Srebrenica era una «zona protetta», (apparentemente) demilitarizzata e occupata militarmente dalla NATO. Ma Srebrenica è anche un'orribile metafora sanguinaria e truculenta, in cui non solo echeggiano: razzismo, fascismo, genocidio, pulizia etnica e stupro di massa; in breve tutte le etichette non sempre veritiere che negli ultimi due decenni si sono rivelate di provata efficacia per ingannare l'opinione pubblica. Questo libro, che ripeto consiglio vivamente di leggere, ci dimostra che un massacro c'è veramente stato, con una piccola differenza però rispetto alla tesi ufficiale: vittime del massacro sono stati i serbi, con 3.280 vittime (quelle che si sanno) il 70 % delle quali erano civili! Tutte queste persone decedute e massacrate durante il periodo 1992-1995 hanno un nome e un cognome e sono state registrate ( www.serb-victims.org). L'altro massacro, quello dei mussulmani, presenta molti lati oscuri (sulla cifra totale si sono scoperti falsi clamorosi e gente che con Srebrenica non c'entrava assolutamente nulla) nonché l'indubbia utilità del tentativo di incastrare la componente serba e, attraverso una ricercata ricostruzione della catena di comando, ha avuto di mira il presidente jugoslavo Milosevic. Certo, anch'esso andava indagato, ma il potere e i metodi della CIA li conosciamo. La «giustizia penale internazionale» viene messa a nudo; l'altra Srebrenica, quella delle vittime serbe, risulta totalmente ignorata! La verità su Srebrenica non è una questione di fede o di interpretazione, ma una questione di fatti, fatti che guarda caso sono stati sistematicamente taciuti e censurati dai politici mussulmani, dagli Stati membri della NATO e dai mass-media occidentali. 
Nessuno ricorda più la micidiale «Operazione Tempesta» del 4 agosto 1995 (ho letto il libro di Giacomo Scotti, Gamberetti editrice) dove l'esercito croato, con 150.000 uomini, invase i territori della Repubblica serba della Krajina occupandoli e ripulendoli dall'intera popolazione che, in interminabili code, abbandonò case e ogni avere per raggiungere la Bosnia e la Serbia? Questa si chiama pulizia etnica! Tutti zitti e tutti smemorati? 
Vogliamo parlare dell'UCK come «esercito di liberazione del Kosovo»? Un esercito che altro non era che un'organizzazione criminale, finanziata dalla CIA (ma che strano!) e anche da parecchi kosovari in Svizzera (questo è stato documentato), rimpolpato da non meglio identificati «combattenti mussulmani» che altro non erano che veri e propri squadroni della morte agli ordini del comandante e criminale di guerra Naser Oric'. 
La versione ufficiale di «Srebrenica» è una menzogna propagandistica che non diventa più vera se la si ripete un'infinità di volte senza poterla provare. In questo libro si dimostra, con un'abbondante documentazione anche iconografica, che il massacro c'è veramente stato, ma fu un massacro a danno dei serbi e del quale nessuno ha mai parlato. 
Appare ora evidente a tutti che il riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo, avvenuto in tempi rapidissimi (su pressioni di chi?) da parte della «nostra» scaduta consigliera federale Micheline Calmy-Rey, fu un gravissimo errore politico (uno dei tanti di questa signora) del quale continueremo a pagare le conseguenze in futuro, anche finanziarie. 
L'indipendenza del Kosovo non è stata riconosciuta da Stati come la Cina, la Russia, l'India, la Spagna, l'Argentina e parecchi altri. Grazie per l'assoluta incompetenza dimostrata anche in questa occasione e per aver nascosto la verità vera.» 
 
5.4. È incontestato che la condanna del ricorrente costituisce un'ingerenza nell'esercizio della sua libertà di opinione e di espressione, fondata su una base legale, ovvero sull'art. 261bis cpv. 4 seconda parte CP (art. 36 cpv. 1 Cost. e art. 10 n. 2 CEDU). Questa norma, oltre a tutelare la tranquillità pubblica e a costituire una misura di prevenzione dei genocidi, tende anche alla protezione della dignità dei membri della comunità vittima del genocidio (v. sentenza 6B_398/2007 del 12 dicembre 2007 consid. 6 i.f.). Essa persegue quindi uno scopo legittimo (art. 36 cpv. 2 Cost. e art. 10 n. 2 CEDU). Resta da esaminare se la condanna penale dell'insorgente sia  necessaria in una società democratica, rispettivamente proporzionata.  
 
5.4.1. Natura delle affermazioni del ricorrente  
 
La CARP ha rilevato che l'insorgente non è stato invitato a intervenire nell'ambito di una conferenza o di una tavola rotonda su un tema giuridico, storico o scientifico e nemmeno nell'ambito di un dibattito politico serio ed esente da animosità e pregiudizi razziali, ma si è espresso spontaneamente ed estemporaneamente, vale a dire al di fuori di ogni esigenza pubblica di un suo apporto. Per l'autorità cantonale i suoi articoli non si inseriscono pertanto in un contesto giustificante un'accresciuta protezione della sua libertà di espressione. 
 
Come obiettato a ragione nel gravame, tale conclusione non può essere seguita. I discorsi relativi a tematiche di ordine storico, siano essi tenuti in occasione di convegni pubblici o nei media, sono di regola considerati riguardare questioni di interesse pubblico e conseguentemente meritevoli di un'accresciuta tutela (v. sentenza  Perinçek, § 230). Benché, come osservato dalla CARP, il ricorrente non sia un giurista, uno storico e neppure un accademico, non può essergli negata, per questa sola ragione, la forte protezione riconosciuta a discorsi concernenti temi di interesse generale. Ammettere il contrario significherebbe rendere la libertà di espressione nella sua forma più assoluta un diritto quasi elitistico, riservato a una cerchia ristretta di persone. Del resto i suoi scritti non hanno alcuna pretesa di carattere scientifico. L'insorgente può peraltro avvalersi anche della sua veste di politico locale e infatti nei suoi articoli egli ha colto l'occasione per criticare esplicitamente il riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo, definito «  un gravissimo errore politico », e indirettamente anche «  la giustizia penale internazionale » che avrebbe ignorato «  l'altra Srebrenica, quella delle vittime serbe ». Certo, il ricorrente non è intervenuto nell'ambito di un dibattito di attualità politica, l'argomento trattato rimane nondimeno di interesse pubblico (v. sentenza  Perinçek, § 231), di modo che risulta inconferente l'accertamento della CARP secondo cui egli ha preferito mostrarsi al pubblico con posizioni negazioniste in assenza di situazioni o condizioni atte a giustificare un interesse pubblico alla loro divulgazione. Considerato il carattere di interesse generale della tematica trattata, l'accresciuta tutela della libertà di espressione può dunque essere negata solo se l'intervento dell'insorgente ha travalicato il limite dell'appello alla violenza, all'odio o all'intolleranza. Un simile appello tuttavia non emerge dai suoi scritti e nemmeno è ritenuto dall'autorità cantonale. Malgrado la negazione del genocidio dei Mussulmani di Bosnia, non traspare alcun rimprovero nei loro confronti, ma piuttosto il tentativo di sdoganare, rispettivamente di riabilitare la componente serba della guerra nella ex-Jugoslavia. Nemmeno l'asserita «  menzogna propagandistica »è attribuita ai Mussulmani di Bosnia. Nei suoi articoli vi è invero un'accozzaglia di elementi ed entità disparati: i «  combattenti dell'UCK », un «  agente della CIA », la NATO, la «  giustizia penale internazionale », i «  politici mussulmani », gli «  Stati membri della NATO », i «  mass-media occidentali », l'« esercito croato », il «  criminale di guerra Naser Oric' » (sia precisato che quest'ultimo è stato prosciolto dal Tribunale penale internazionale in data 3 luglio 2008, v. < www.icty.org >). Nei suoi testi il ricorrente ha inoltre sostenuto che il massacro dei Mussulmani a Srebrenica, oltre ad avere «  molti lati oscuri », presenterebbe pure «  l'indubbia utilità del tentativo di incastrare la componente serba »e mirare «  al presidente jugoslavo Milosevic. Certo, anch'esso andava indagato, ma il potere e i metodi della CIA li conosciamo ». Questo passaggio letto unitamente a quello del «  massacro di civili albanesi », che secondo gli articoli non erano «  civili » ma «  combattenti dell'UCK », massacro ritenuto «  l'occasione lungamente attesa di dichiarare guerra alla Jugoslavia », lascia piuttosto intendere che la menzogna e i rimproveri non sono fatti in capo ai Mussulmani di Bosnia, quanto piuttosto alla CIA e alla NATO, che altro non aspettavano che poter intervenire nella regione.  
 
5.4.2. Contesto dell'ingerenza sotto il profilo geografico, storico e temporale  
 
Al riguardo, dopo aver rilevato che nel periodo in cui sono apparsi gli articoli del ricorrente, in Svizzera e in Ticino, il contesto non era caratterizzato da tensioni o antecedenti storici particolari attinenti ai fatti di Srebrenica, la CARP ha osservato che la popolazione balcanica residente nel Cantone raggiunge l'8,2 % di quella straniera, contando complessivamente all'incirca 8'000 persone, pari agli abitanti di un comune ticinese medio-grande. Per la CARP l'insorgente, da politico navigato, non poteva essere insensibile a tale realtà e all'impatto che i suoi scritti avrebbero potuto avere all'interno della convivenza tra Serbi e Mussulmani bosniaci nel nostro Paese, non si è tuttavia curato del rischio di turbamenti dell'ordine pubblico o di pregiudizio alla dignità umana dei membri della comunità mussulmana di Bosnia. Il ricorrente, da parte sua, sottolinea che non sussisterebbe alcun legame diretto tra la Svizzera e gli avvenimenti di Srebrenica e nemmeno un clima teso che rischierebbe di creare gravi frizioni tra la comunità serba e quella bosniaca mussulmana. 
 
Se è vero che un genocidio costituisce un'eredità storica non solo di un popolo, ma dell'intera umanità e che, quale fenomeno strutturale della società umana, il suo significato, rispettivamente il rapporto con i genocidi perpetrati nel passato sfugge a una localizzazione (NIGGLI/ FIOLKA, Art. 261 bis StGB und die Meinungsäusserungsfreiheit, in Gedanken zur Rassismus-Strafnorm: 20 Jahre Art. 261 bis StGB, 2016, pag. 103), il contesto storico, geografico e temporale in cui sono stati tenuti i discorsi negazionisti assume particolare rilevanza per determinare se le restrizioni alla libertà di espressione possono essere considerate  necessarie in una società democraticae imposte da  un bisogno sociale impellente (sentenza  Perinçek, § 242 segg.). Come già rilevato a livello cantonale, non sussiste un nesso sufficiente tra la Svizzera e il genocidio di Srebrenica, in relazione al quale non risulta abbia avuto alcun ruolo. Un legame potrebbe scorgersi nella presenza della popolazione balcanica in Svizzera. Quella in Ticino, benché non irrilevante, non appare comunque molto importante e non si possono constatare tensioni particolari tra le diverse comunità che la compongono. Peraltro, il genocidio di Srebrenica nemmeno costituiva un tema dell'attualità politica cantonale o federale. Certo, esiste sempre il rischio di risvegliare rancori mai sopiti e riaprire ferite mai emarginate, soprattutto considerato il relativamente breve lasso temporale trascorso dal genocidio di Srebrenica: in effetti il ricorrente ha pubblicato i suoi articoli a distanza di poco meno di 20 anni dal genocidio, in un periodo quindi in cui il dramma e la sofferenza connessi a questo crimine era (ed è) sicuramente ancora molto presente e traumatico per le vittime e le loro famiglie. Se però sotto il ristretto profilo temporale l'ingerenza può apparire necessaria, altrettanto non si può dire alla luce del contesto geografico e storico.  
 
5.4.3. Entità della lesione ai diritti dei membri della comunità dei Mussulmani di Bosnia  
 
Come precedentemente esposto (v. supra consid. 3.3), il ricorrente ha negato o quanto meno messo in dubbio la realtà del genocidio ai danni dei Mussulmani di Bosnia. Appare evidente che in tal modo egli ha leso non solo la loro reputazione e memoria, ma anche la loro dignità, privandoli della loro qualità di vittime di un crimine atroce, commesso nell'intento di distruggerli (v. art. 264 CP, art. 6 dello Statuto di Roma e art. II della Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio), comunque accertato giudizialmente nelle competenti sedi internazionali. Non ha contestato unicamente la qualificazione di genocidio, ma anche l'esistenza stessa del massacro, considerato utile nel «  tentativo di incastrare la componente serba ». Questo tentativo però non è attribuito ai Mussulmani bosniaci. Anche volendo dare per acquisita l'esistenza di un movente discriminatorio, i suoi articoli, oltraggiosi verso le vittime, i loro congiunti e tutti i membri della comunità in questione (e non solo), non comportano tuttavia rimproveri o accuse nei loro confronti e nemmeno imputano loro di aver in qualche modo sfruttato per proprio conto l'asserita «  menzogna propagandistica ». Neppure l'uso di termini forti, quale quello testé ripreso, o il sarcasmo possono essere considerati come una forma di attacco del gruppo. Gli scritti dell'insorgente, anche se categorici, non appaiono particolarmente virulenti e non sono stati diffusi in una forma impossibile da ignorare. Non va poi dimenticato che, pur pretendendo di presentare «  Srebrenicacome sono andate le cose », il ricorrente non rivendica di basarsi su una seria inchiesta giornalistica, su un'affidabile ricerca storica o su constatazioni giudiziarie imparziali, ma solo su un libro contenente «  un'abbondante documentazione anche iconografica ». Occorre infine rilevare che la contestazione, quand'anche aggressiva, della portata di eventi storici particolarmente sensibili per una comunità e relativi alla propria identità non può da sola essere ritenuta gravemente lesiva per i suoi membri (sentenza  Perinçek, § 253).  
 
5.4.4. Gravità dell'ingerenza nell'esercizio della libertà di espressione  
 
A prescindere dall'entità della pena concretamente irrogata, la pronuncia di una condanna penale costituisce una delle ingerenze più gravi e incisive nell'esercizio della libertà di espressione (v. sentenza  Perinçek, § 272 seg.).  
 
5.4.5. Ponderazione tra il diritto dell'insorgente alla libertà di espressione e il diritto dei Mussulmani di Bosnia al rispetto della loro reputazione e memoria  
 
Gli articoli del ricorrente concernono eventi della storia recente e pertanto questioni di interesse pubblico, a maggior ragione considerata la critica mossa alla politica e anche le più o meno esplicite accuse rivolte alla CIA, alla NATO e alla giustizia penale internazionale. Non comportano tuttavia un'incitazione all'odio, alla violenza o all'intolleranza o una loro giustificazione, né rimproveri ai Mussulmani bosniaci. Il contesto in cui sono stati pubblicati non era teso e il rischio di disordini pertanto basso; la Svizzera non è stata implicata nella guerra nella ex-Jugoslavia e non ha particolari responsabilità morali in merito. Benché indubbiamente irrispettosi e offensivi della memoria e delle sofferenze delle vittime, dei loro familiari e in generale dei membri dell'intera comunità dei Mussulmani bosniaci, gli scritti dell'insorgente non possono essere considerati lesivi della loro dignità al punto da richiedere un intervento penale, che peraltro nessun obbligo internazionale impone di adottare. Tenuto inoltre conto che la condanna penale, indipendentemente dalla pena concretamente inflitta, costituisce una delle ingerenze più incisive e gravi nell'esercizio della libertà di espressione, essa non può essere ritenuta  necessaria in una società democratica, precisato in ogni caso che l'assenza di una condanna di questo genere non può essere ritenuta come una forma di legittimazione degli scritti in giudizio (v. sentenza  Perinçek, § 244 i.f.).  
 
5.5. La condanna del ricorrente giusta l'art. 261bis cpv. 4 seconda parte CP si rileva in conclusione contraria alla sua libertà di opinione e di espressione garantita dagli art. 16 Cost. e 10 CEDU e va pertanto annullata. Si impone di prosciogliere l'insorgente dalla relativa imputazione.  
 
6.   
Il proscioglimento dall'accusa di discriminazione razziale consente al ricorrente di avanzare pretese di indennizzo e riparazione del torto morale ai sensi dell'art. 429 CPP
 
A tale titolo l'insorgente chiede unicamente di essere esentato dal rimborso della retribuzione accordata al suo difensore d'ufficio in sede cantonale, precisando che il riconoscimento della sua libertà di espressione e del suo connesso proscioglimento costituisce una sufficiente riparazione del torto morale subito. 
 
Il rimborso allo Stato della retribuzione da esso versata al difensore d'ufficio dell'imputato è previsto dall'art. 135 cpv. 4 CPP ed è strettamente legato alla questione delle spese procedurali. Quest'ultima, in seguito al proscioglimento dall'imputazione di discriminazione razziale, dev'essere oggetto di una nuova decisione da parte dell'autorità cantonale, spetterà quindi ad essa pronunciarsi su tale richiesta. 
 
7.   
Ne segue che il ricorso va accolto. La sentenza impugnata dev'essere annullata, l'insorgente prosciolto dall'accusa di discriminazione razziale e la causa rinviata alla CARP per nuova decisione sulle spese procedurali e sulla richiesta di esenzione dalla restituzione degli onorari riconosciuti al difensore d'ufficio. 
 
Non si giustifica prelevare spese giudiziarie a carico del Cantone Ticino (art. 66 cpv. 1 e 4 LTF), che è nondimeno tenuto a versare al ricorrente un'indennità a titolo di ripetibili della sede federale (art. 68 cpv. 1 e 2 LTF). 
 
 
 Per questi motivi, il Tribunale federale pronuncia:  
 
1.   
Il ricorso è accolto. La sentenza emanata il 2 giugno 2017 dalla Corte di appello e di revisione penale è annullata e il ricorrente è prosciolto dall'imputazione di ripetuta discriminazione razziale. La causa è rinviata alla Corte di appello e di revisione penale per nuova decisione ai sensi dei considerandi. 
 
2.   
Non si prelevano spese giudiziarie. 
 
3.   
Lo Stato del Cantone Ticino verserà al ricorrente la somma di fr. 3'000.-- a titolo di ripetibili per la procedura innanzi al Tribunale federale. 
 
4.   
Comunicazione ai patrocinatori del ricorrente, al Ministero pubblico e alla Corte di appello e di revisione penale del Cantone Ticino. 
 
 
Losanna, 6 dicembre 2018 
 
In nome della Corte di diritto penale 
del Tribunale federale svizzero 
 
Il Presidente: Denys 
 
La Cancelliera: Ortolano Ribordy